Il buio e labbraccio
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Il buio e l'abbraccio, un racconto di Claudio Fiorilla
“Ennesima morte sulla strada: un camion diretto a Pescara sull’A14 perde il controllo e si scontra nell’altra corsia con una macchina, in cui viaggiava una famiglia d’origine rumena: hanno perso la vita i due figli di otto e quindici anni. I genitori hanno deciso di donare i loro organi per consentire ad altre persone di continuare a vivere: questo sicuramente fa onore ai due genitori e scaccia dalle nostre menti l’idea dei rumeni rapinatori e assass…”.
La voce del telecronista si spense all’improvviso, ma subito quel silenzio spiazzante ed assordante, quasi fosse pieno dei lamenti dei genitori dei due ragazzi, fu riempito dalla voce incredibilmente forte di mio padre che, come al solito, dopo aver bevuto tutto d’un sorso un bicchiere pieno di vino, commentò quella notizia: “Bah! Che bisogno c’era di donare quegli organi, scommetto che non funzioneranno, come quei sporchi rumeni! Che vengono a fare in Italia, io dico! Li dovrebbero mandare tutti via! Io non li accetterei mai i loro organi. Maria portami un altro bicchiere d…”. La voce di mio padre, che gridava uno dei suoi tanti, monotoni ed imperiosi ordini a mia madre si spense nella mia mente, ormai abituata da molto tempo alle stupidaggini che uscivano dalla bocca di mio padre, alla stessa velocità della voce del telecronista. Non che mio padre fosse razzista, credo piuttosto che si lasci influenzare facilmente dalle notizie sugli extracomunitari rapinatori ed assassini, che lo investono come un fiume in piena trascinandolo inesorabilmente verso i soliti preconcetti carichi di odio. Velocemente decisi di non ribattere alle parole di mio padre, perché troppe volte per questa scelta avevo visto le sue mani su di me e su mia madre, picchiandoci come avrebbe fatto con uno di quei “sporchi extracomunitari”; decisi invece di finire il pranzo e di lasciare mio padre seduto ad imprecare contro i suoi obiettivi preferiti e di andare nella mia stanza a riflettere sugli argomenti che mio padre mi aveva involontariamente suggerito e a cercare una risposta alle innumerevoli domande, che rimbalzavano nella mia testa come le palline all’interno di un flipper: come si sentivano i genitori di quei ragazzi? Era stata facile la loro decisione di donare gli organi dei loro figli o in attimo di insano egoismo hanno pensato di non donarli perché appartenevano soltanto ai loro figli? E per quale ragione dovevano permettere a degli italiani che, forse almeno una volta, avevano insultato la loro gente, di continuare nella loro vita, la stessa vita che ai loro figli era stata strappata in un attimo lento ma inesorabile? Mi sdraiai sul letto improvvisamente stanco, quasi stremato dall’intensità di quelle domande, domande a cui non trovai una risposta… fortunatamente: credo infatti che per rispondere a quelle terribili domande si debba vivere un’esperienza ancor più terribile, simile a quella della povera famiglia rumena; e non credo di odiare abbastanza mio padre, e credo di amare mia madre per non augurare loro di dover decidere un giorno di donare o no i miei organi; certamente mio padre si assicurerebbe che non finissero nel corpo di qualche sporco extracomunitario! Mi imposi di non pensare più a queste cose, pensieri troppo cupi, tristi per un giorno bello, come quello avrei voluto che fosse e mi addormentai pensando a ciò che avrei fatto di pomeriggio, ma per un istante, solo per un terribile istante, mi tornò alla mente l’immagine della macchina della famiglia rumena, ridotta ad un ammasso di lamiere, e del sangue sparso sull’asfalto, che non scorrerà mai più in delle vene, ma seccherà sull’asfalto e scomparirà, come le vite di quei poveri ragazzi rumeni. Mi svegliai verso le quattro di pomeriggio, nel silenzio che in quella casa era innaturale, abituato com’ero a sentire mio padre imprecare ad ogni ora contro mia madre, ma poi capii il motivo: quel pomeriggio i miei sarebbero dovuti uscire per un funerale di un loro amico… naturalmente italiano; anch’io sarei dovuto uscire per incontrare dei miei amici, paradossalmente alcuni extracomunitari; ma improvvisamente mi tornarono alla mente le parole di mio padre:”Che vengono a fare in Italia!”, “Li dovrebbero mandare tutti via” e per un attimo pensai che forse aveva ragione, che tutti quegli extracomunitari, compresi i miei amici, stessero rubando ciò che mi apparteneva di diritto come italiano, perfino l’aria che in questo momento stavano respirando con i loro sporchi polmoni; io stesso mi meravigliai e mi disgustai per questi pensieri, e mi pervase il desiderio di battere la testa contro il muro per liberare la mia mente… ma per fortuna bastò un po’ di buon senso per farlo e decidere così di uscire ed incontrare i miei amici. Mi diressi lentamente dalla mia stanza all’ingresso, ancora frastornato dal sonno, presi le chiavi del motorino ed uscii da casa, accompagnato dalla voce dell’ennesimo talk-show televisivo sulla disgrazia della famiglia rumena e sulla generosità dei genitori rumeni, argomento giusto ma ormai svuotato di ogni significato, diventato un vile strumento per aumentare lo share e destinato ad essere dimenticato dopo poco meno di una settimana. Scesi in garage, vidi il solito mucchio di spazzatura che mio padre non voleva mai buttare e salii sul mio motorino, pronto ad uscire con i miei amici e dimenticare così le brutte immagini e le tristi domande che vagavano nella mia mente. Mi misi naturalmente il casco, perché troppe volte avevo visto amici morti a causa di un casco allacciato male oppure neanche messo perché rovinava i capelli pieni di gel, quasi che l’aspetto esteriore conti più della vita stessa. Accesi il motorino ed uscii lentamente dal garage, e mi immersi nel traffico della città, spesso letale, e subito una nube di smog e una miriade di suoni mi investirono con la forza di un camion, cominciai ad evitare, con una sicurezza spaventosa, le macchine che mi sorpassavano a destra e a sinistra abituato ormai al caos che in una grande città era normale. Mi fermai ad un semaforo e vidi una scena tristemente familiare: una madre straniera con in braccio due bambini, che potevano avere al massimo quattro anni in due, mentre cercava di racimolare qualche soldo per poter assicurare almeno un pasto ai suoi figli, e subito la mente mi ritornò al telegiornale dell’una e alla famiglia rumena distrutta a causa della distrazione di un camionista, e dolore non fisico ma psicologico invase la mia testa, riempita di nuovo dalle domande che avevano cercato di non farmi dormire poco meno di due ore fa, e fu in quel momento che accadde qualcosa, ma così velocemente che mi è difficile spiegare come: guardo il semaforo, è verde, accelero, sto per superare l’incrocio e potere così finalmente incontrarmi con i miei amici, quando un fuoristrada, passato nell’esatto istante in cui per lui scattava il rosso e per me il verde, mi prende in pieno lateralmente: per un secondo sento un dolore, questa volta fisico, invadermi tutto il corpo, e posso sentire anche l’aria gelata ,che mi colpisce come tanti aghi, mentre sono in volo e stranamente provo quasi una sensazione di liberazione, liberazione finalmente di tutte le mie preoccupazioni, che finisce appena mi schianto sull’asfalto, per quella maledetta legge di gravità che non permette agli uomini di librarsi in alto come gli uccelli, e sento anche le lenti dei miei occhiali da vista rompersi e penetrare nei miei occhi, poi finalmente svengo. Ricordo tutto questo con estrema precisione, poiché le immagini scorrono davanti a me lentamente, fotogramma per fotogramma, quasi fossi in un cinema; poi di nuovo buio avvolge la mia mente, le immagini di quel giorno svaniscono velocemente e sento che la mia anima, persa in quello che forse è il Paradiso, ritorna dentro il corpo, portatrice di vita e speranze.
“Dottore, dottore! é ferito gravemente? Ce la farà?”. Mi sveglia una voce lontana di una donna molto preoccupata, che mi sembra di conoscere, cerco di aprire gli occhi, ma non ce la faccio, quasi avessi le ciglia unite tra di loro, e lo sforzo è tale da farmi svenire nuovamente, in un buio che fa sprofondare il mio animo nel baratro più profondo. “Paolo dai svegliati; apri gli occhi Paolo svegliati! Ti prego!” Di nuovo sento una voce, che cerca di far risalire il mio animo dal baratro; è una voce diversa da quella di prima, molto simile a quella di mio padre, con una tonalità però differente a quella cui ero abituato, più forte e piena di rabbia. E poi, come se quel cambiamento in mio padre mi avesse dato nuova speranza, la mia anima ritorna nel mio corpo, e finalmente mi risveglio, intontito dalle medicine che attenuano i dolori, e quando credo di aprire gli occhi e di vedere le facce preoccupate dei miei genitori, ripiombo nello stesso buio che circondava la mia mente fino a pochi minuti prima, e grido, grido come non avevo mai fatto, certo di quello che mi era successo: “Mamma! Papà! Io…io non ci vedo! Cosa mi è successo?”; mia madre scoppia a piangere, confermandomi quella inesorabile certezza, mio padre comincia a parlare lentamente, scandendo le parole, scosso da ciò che era successo: ”Ecco Paolo, vedi, i dottori hanno detto che…insomma…come posso dirtelo…quando hai avuto l’incidente le lenti dei tuoi occhiali si sono rotte e sono entrate nei tuoi occhi, danneggiando la cornea…ecco perché sei…non ci vedi più”. Mio padre finì la frase singhiozzando, e posso immaginare i suoi occhi umidi, ma quando mi aspetto di sentire, per la prima volta nella mia vita, mio padre piangere, entra nella stanza un dottore, che invita gentilmente i miei ad uscire per prendere un bicchiere d’acqua, e con un tono tra l’amichevole e il professionale, comincia a parlarmi:”Allora Paolo, come andiamo?” Ed io, girando la testa inutilmente per individuare la provenienza della voce: “Beh dottore, potrebbe andare meglio. Innanzitutto, lei è davanti a me giusto? Così almeno più o meno so dove guardare. E poi mi potrebbe spiegare cosa mi è successo agli occhi? È grave? Potrò tornare a vedere?”. Dire queste parole mi sconvolse, perché accettavo ciò che mi era successo, e sperai che il dottore mi dicesse: ”tranquillo, Paolo, tra qualche giorno potrai tornare a godere della luce del sole”; ma invece disse:” ecco, non lo sappiamo con certezza quando e se potrai tornare a vedere. La situazione è molto complessa: l’occhio è una zona molto delicata, difficile da operare, e con le schegge al loro interno la situazione si complica: le cornee sono estremamente danneggiate e l’unica soluzione è esportarle e sperare di trovare un donatore. L’intervento sarebbe comunque difficile e lungo e dovremmo chiamare un luminare americano specialista in questo tipo di interventi, il dottor Peterson. Dovremo aspettare e intanto tu ti dovrai riguardare, visto che hai la gamba destra rotta e vari ematomi lungo tutto il corpo”. I miei genitori entrarono, giusto in tempo per permettere al dottore di infondere nei loro cuori una vana speranza, quello di un trapianto di cornee. La mia di speranza si spense invece immediatamente, e cominciai ad immaginare la mia vita futura, guidato da un pastore tedesco, costretto a non godere più della luce del sole e delle facce dei miei genitori. Il giorno dopo mi portarono in sala operatoria d’urgenza, perché le mie cornee stavano peggiorando, e dovevano essere asportate, per non compromettere l’intero occhio. Dopo questo, le giornate all’ospedale trascorrevano monotone: mia madre sempre accanto a me, quasi temesse che mi potessi alzare, che esaudiva ogni mia richiesta, mio padre che tornava dal lavoro, speranzoso di vedermi con gli occhi aperti che camminavo nel giardino dell’ospedale e lo salutavo, notando i coloro sgargianti della sua nuova camicia e facendoglielo notare con una risata. Purtroppo per lui e per me questo non accadeva, e più passavano i giorni, più ci rassegnavamo al mio destino infelice, ed io soprattutto mi rassegnavo al fatto che non sarei diventato un calciatore professionista, come sognavo, anzi non avrei più potuto giocare a calcio, vedere in faccia i miei amici o chiunque avrei incontrato per strada. Quando un giorno, all’improvviso, sento entrare il dottore, che scoprii chiamarsi Ragusa, e, con il tono eccitato di chi porta una buona notizia, comincia a parlare:” Paolo, ho ottime notizie, almeno dal tuo punto di vista: abbiamo trovato un donatore! È un ragazzo afgano, morto a causa di una malattia che lo affliggeva da molto tempo; questo comunque non ha danneggiato gli organi, e siamo pronti per operare al più presto. Solo il tempo di far arrivare il dottor Peterson”. Prima di poter commentare la splendida notizia, sento mio padre ripetere come un automa: ”Afgano? Lei ha detto afgano? Dottore, lei è sicuro?”. “Incredibile!”, penso, “incredibile! Mio padre è disposto a farmi rimanere cieco per tutta la vita solo per una stupida questione di colore della pelle?”; ma prima che potessi dar sfogo a tutta la mia rabbia e urlare tutto il mio disprezzo a mio padre, lui mi precede, ma invece di mandar via il dottore disgustato per ciò che aveva detto, come m’aspettavo, lo ringrazia, posso sentire il suo pianto di gioia e di liberazione, liberazione da un incubo, e mi abbraccia dicendomi: ”Paolo! Tornerai a vedere! È bellissimo! Non ci posso credere!”. Senza che me ne accorgessi delle lacrime cominciano a sgorgare anche dai miei occhi senza vita, quasi fossero anche loro contenti per quell’insperato miracolo. Il giorno dopo arriva così all’ospedale il dottor Peterson, giunto incredibilmente presto dall’America, e subito pronto per operare e consentirmi di poter ricominciare a vedere, credo forse anche impaziente, o forse preoccupato che le cornee si rovinassero col passare del tempo. Mi portano allora urgentemente in sala operatoria, dopo aver salutato calorosamente i miei genitori, lasciati con la speranza che andasse tutto bene. In sala operatoria sento un fremere di infermieri e dottori attorno a me, e questo mi innervosisce, anzi mi preoccupa un po’ e il dottor Peterson mi parla in inglese, credo per rassicurarmi, lo capisco dal suo tono calmo e fermo. E dopo questo non ricordo più niente, addormentato all’anestesia. Mi sveglio nella mia stanza e mi ritrovo incredibilmente nello stesso buio che aveva caratterizzato gli infelici giorni prima dell’operazione, e scoraggiato penso che forse è andata male, che magari il mio corpo non aveva accettato quell’organo estraneo e che passerò quindi il resto della mia vita cieco, quando sento mia madre che mi dice, stranamente contenta: ”Paolo, come ti senti? Sarai ancora un po’ stordito dall’anestesia. Abbiamo parlato con il dottor Peterson: ha detto che l’operazione è andata benissimo; potrai tornare a vedere nel giro di pochi giorni, tre o quattro al massimo. Nel frattempo dovrai tenere delle bende attorno agli occhi, per…non mi ricordo come ha detto, per stabilizzare credo le cornee all’interno dei tuoi occhi. Sei contento?”. Non esistono parole per descrivere la felicità che in questo momento mi invade, una felicità talmente grande da non esistere neanche nel mondo dei sogni, dove tutto è amplificato fino all’inverosimile. I giorni dopo l’operazione trascorrono così velocemente e felicemente, certo finalmente che sarei tornato a vedere: parlo ogni giorno nella mia stanza con mia madre, come non avevo mai fatto, dei miei amici, delle ragazza che mi piace, come fare per conquistarla, e alla fine ridiamo pensando a me che, con sombrero e poncho, le faccio una serenata; parlo anche con mio padre, dimentico ormai del passato triste in cui non mi parlava e se lo faceva era solo per insultarmi, della politica italiana, di ciò che avrei voluto fare una volta finito il liceo scientifico, impostomi da lui, ora capisco, per permettere a me e alla mia futura famiglia una vita migliore della sua e della nostra. Finalmente il quarto giorno dopo l’operazione, entra nella mia stanza il dottor Ragusa, che con gesti dal sapore rituale e liberatorio, mi toglie finalmente le bende attorno agli occhi; inizialmente tengo gli occhi chiusi, ormai abituati al buio costante, ma poi li apro: la luce del sole mi provoca dolore, un dolore però piacevole, e dopo un attimo di visione sfocata riesco a mettere a fuoco i volti dei miei genitori, talmente contenti da irradiare anche loro luce, e tutti scoppiamo in un pianto liberatorio, contenti che la mia disavventura sia finalmente finita. Il giorno dopo lasciamo l’ospedale, e salutiamo un po’ commossi il dottor Ragusa, compagno indimenticabile in questi giorni di travaglio, capace di farmi sorridere anche nei momenti di depressione, certo comunque che l’avrei rivisto in circostanze più piacevoli, magari durante una cena per ringraziarlo per tutto ciò che aveva fatto per me. Torno finalmente a casa, pronto a dimenticare ciò che avevo passato, pronto a ricominciare una nuova vita, sicuramente più bella e meno triste di quella precedente, ormai solo un miraggio destinato a svanire. Soltanto una cosa non avrei mai potuto dimenticare, il nome del ragazzo afgano di cui porto un me un piccolo, seppur importante pezzetto di lui: si chiamava Francesco, un nome inusuale per un afgano, ma del tutto normale se si considera che era nato in Italia; non ricordo il nome della malattia che lo aveva ucciso, ma ricorderò senza dubbio le facce sorridenti e al contempo tristi dei suoi genitori, Amir e Abira, che incontrai proprio quando stavo uscendo dall’ospedale, contenti di vedere che l’operazione fosse riuscita bene. E non potrò mai dimenticare l’incontro tra loro e i miei genitori: mia madre si gettò quasi ai loro piedi, ringraziandoli e facendo loro le condoglianze per la recente perdita; ma fu mio padre che mi stupì di più: inizialmente stette fermo, immobile, quasi stesse lottando interiormente, per vincere il suo disgusto per gli extracomunitari, ma incredibilmente all’improvviso si gettò su Amir, abbracciandolo con le lacrime agli occhi, non dicendo niente perché quel gesto diceva tutto, esprimeva ciò che mio padre provava veramente dentro di sé: gioia e gratitudine verso coloro che aveva sempre disprezzato e che avevano riconsegnato la vista a suo figlio, senza chiedere nulla in cambio, solamente un lungo, caloroso abbraccio.